Fotografia in Psicologia Clinica

Utilizzo delle immagini nella relazione terapeutica

© Mario Giacomelli 1961-63

Della fotografia, negli anni, sono tanti gli aspetti che mi hanno attratto, primo tra tutti il suo intimo rapporto con il tempo. Il legame con il tempo è duplice: da un lato il tempo trascorso a guardare, fotografare; dall’altro il connettersi ad un tempo interiore, personale, intimo. Il tempo, la memoria e l’esperienza personale si intrecciano.

Unificando percezione e memoria, visione e conoscenza, l’arte del vedere si appresta a divenire un’arte della memoria. [Rilke]

All’inizio della sperimentazione con la fotocamera la sensazione prevalente fu quella di poter scoprire dentro di me un nuovo mondo interiore, un modo di esistere alternativo, qualcosa a cui sarebbe stato difficile in seguito rinunciare. La fotografia ha così assunto per me la forma di un atto di riflessione e meditazione, una modalità d’esplorazione e scoperta del mio mondo interiore.

‘La conoscenza integra esperienze passate e presenti in modo da dar luogo a nuove attività o nella forma di attività percepita internamente come pensiero e volontà o nella forma di attività percepibile esternamente come linguaggio e movimento’. [H. Von Foerster - ].

Negli anni ho imparato molto della fotografia dalla sua relazione con gli estremi, il tutto e il nulla. Una fotografia è prima di tutto uno spazio tra due estremi, tra il bianco e il nero. È lo spazio compreso tra l’assenza di luce e la presenza accecante della stessa; la sintesi tra il non vedere poiché completamente buio e il non vedere perché accecati dalla troppa luce. Questi estremi insieme a tutto quello che sta nel mezzo è fotografia: scrittura di luce. Ce lo insegna Mario Giacomelli che, con le sue foto, mette insieme questi estremi in una sintesi formidabile riuscendo a comunicare profondità e leggerezza attraverso immagini tipograficamente estreme.

La fotografia, nel suo gioco di contrasti tra bianco e nero, invita a una riflessione profonda sugli estremi: il tutto e il nulla, la luce e l'oscurità. Questa dialettica visiva risuona con la poetica di Mario Giacomelli, un maestro nel bilanciamento tra queste polarità.

In fotografia, il bianco e il nero non sono semplicemente colori; rappresentano gli estremi del visibile. Questa dualità del bianco e nero è fondamentale per comprendere il linguaggio visivo della fotografia, in cui il contrasto di estremi definisce forma, texture e profondità, mentre la loro gradazione permette di rendere l’immagine più o meno accessibile, stabilendo il grado di immediatezza nella lettura.

Curiosamente, sia la sovraesposizione alla luce che la completa assenza di essa risultano in una perdita di visione. Quando c'è troppa luce, i dettagli si dissolvono in un bagliore accecante; dove manca la luce, tutto cade nell'oscurità impenetrabile. In entrambi i casi, la realtà diventa indistinguibile e ciò che rimane è un senso di assenza.

Mario Giacomelli, con la sua acuta sensibilità artistica, ha esplorato proprio questi confini. Nelle sue fotografie, il bianco e il nero non sono semplicemente sfondi o figure; sono espressioni emotive, narrazioni di vita e morte, di essere e non essere. Le sue immagini catturano un mondo in cui gli estremi si confrontano, svelando la bellezza e la tragedia dell'esistenza umana. Questa interazione tra il bianco e il nero in fotografia può essere vista come una metafora del tutto e del nulla. Ogni immagine è un gioco di equilibri tra questi due poli, dove la realtà è continuamente reinterpretata. Il bianco può essere inteso come la pienezza dell'essere, il punto culminante dell'esistenza, mentre il nero rappresenta il mistero, l'ignoto, nel quale tutto può scomparire.

Il linguaggio dei contrasti ci invita a riflettere sulla natura della realtà e della percezione. La fotografia non è solo l'arte di catturare ciò che è visibile ma anche l'esplorazione filosofica di ciò che rimane nascosto agli occhi. È una danza tra luce e oscurità, dove ciascuna definisce e dà forma all'altra e dove la verità visiva risiede non solo in ciò che è immediatamente visibile, ma anche in ciò che è sottratto, ombreggiato o completamente celato.

Collegando questi concetti troviamo una potente analogia nel mito della caverna di Platone. Nel mito i prigionieri nella caverna vedono solo le ombre proiettate sul muro nel fondo, non la realtà esterna. Queste ombre rappresentano le percezioni limitate e distorte della realtà. La fuga dalla caverna e la conseguente esposizione alla luce del sole simboleggia il cammino verso la conoscenza e la verità, sebbene questa verità possa essere inizialmente accecante o difficile da accettare.

Quando applichiamo questo simbolismo al bianco e al nero in fotografia, possiamo vedere come ogni fotografia diventi una rappresentazione metaforica del viaggio umano dalla caverna (ignoranza, ombra) alla luce (conoscenza, verità). Una fotografia in bianco e nero cattura questo gioco di luci e ombre, di conoscenza e mistero, di visibile e nascosto.

In questo contesto, una fotografia può diventare uno strumento per la riflessione psicologica. Guardando un'immagine in bianco e nero, possiamo chiederci: cosa è rivelato nella luce? Cosa si nasconde nell'ombra? Questa riflessione può simboleggiare il nostro viaggio interiore, il nostro tentativo di comprendere noi stessi - di portare alla luce le nostre ombre, proprio come il prigioniero che emerge dalla caverna di Platone.

La fotografia, attraverso il rapporto tra bianco e nero, il tutto e il nulla, si rivela come un medium potente non solo per l'espressione artistica, ma anche per l'esplorazione e la comprensione della condizione umana, nel suo continuo oscillare tra presenza e assenza, visibilità e invisibilità, realtà e mistero.

Dato lo stretto legame che la percezione intrattiene con la memoria, essa attiva il contatto con le zone d’ombra del vissuto, con i contenuti fantastici e alienati, rinserrati nella caverna oscura della psiche (E. Taramelli). Questa riflessione ci riconduce alla filosofia greca, nell’intimo rapporto di coincidenza tra vedere e conoscere. Il processo di mutamento visivo-cognitivo trova l’archetipo nel mito della caverna raccontato nel libro della Repubblica da Platone (H. von Foerster).

Gabriele Lungarella

Graduated in Psychology and later in Photography Gabriele is a documentary photographer based in Rome, Italy. His work centers on landscape, urban landscape, interiors and architecture photography. Since 2011 he teaches photography at IED (Design University) in Rome. Interested in landscape as a silent reflection of human activity, his works focuses on creating an archive of natural environments and man-made landscapes, with special attention to the human and his psychological stratification.

http://www.gabrielelungarella.com
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