L’invisibile che parla: la funzione dello sguardo in psicoterapia e in fotografia

© Elina Brotherus | La main, 1999

C’è qualcosa nello sguardo che sfugge alla parola. Ci osserviamo e siamo osservati ben prima di imparare a parlare: lo sguardo è il primo linguaggio dell’incontro. Neo-nati, ancor prima di articolare suoni, è nel volto dell'altro, nel suo modo di guardarci, che iniziamo a conoscere noi stessi. In psicoterapia come in fotografia, lo sguardo diventa un luogo di rivelazione, un confine sensibile tra interno ed esterno, tra visibile e invisibile. Ma cosa accade davvero quando uno sguardo incontra un altro sguardo? E quale ruolo gioca questo atto percettivo nella trasformazione psicologica e nella costruzione dell'immagine?

Lo sguardo come evento filosofico: tra Sartre e Merleau-Ponty

Nella filosofia esistenzialista di Jean-Paul Sartre, lo sguardo dell'altro ha un potere dirompente: ci trasforma in oggetti. "Essere guardati" significa perdere la padronanza su di sé, essere colti nella nostra esistenza nuda, giudicabile. In L'essere e il nulla, Sartre descrive l'esperienza dello sguardo come una forma di alienazione: l'altro ci fissa, e nel farlo ci definisce. Siamo presi nella sua intenzionalità.

Al contrario, in Merleau-Ponty lo sguardo non è solo un atto mentale, ma un evento corporeo e intersoggettivo. In Fenomenologia della percezione, l'autore descrive la visione come incarnata: il vedere implica un essere visti. I corpi si toccano attraverso lo sguardo, che diventa una forma di co-esistenza. Non più alienazione, ma intercorporeità.

Nel dialogo tra questi due pensieri si apre uno spazio fecondo per la psicoterapia: lo sguardo come minaccia o come ponte, come dispositivo che può oggettivare ma anche riconoscere.

Lo sguardo che fonda il sé: prospettive psicodinamiche e dello sviluppo

Fin dai primi mesi di vita, il bambino cerca lo sguardo dell'adulto. In Daniel Stern, l'osservazione del volto materno è una delle prime forme di regolazione affettiva. La sintonizzazione emotiva passa attraverso micro-espressioni, gesti sottili, ma soprattutto attraverso il modo in cui la madre guarda il bambino.

Donald Winnicott, in una delle sue immagini più celebri, scrive che "ciò che il bambino vede nello sguardo della madre è se stesso". Lo sguardo diventa allora specchio: non uno specchio oggettivo, ma un riflesso che restituisce un sé possibile, accettato, riconosciuto. Quando questo sguardo è distorto, assente o intrusivo, il bambino interiorizza un'immagine di sé fragile, non integrata.

In psicoterapia, questa dinamica si riattiva: il paziente cerca nel volto e nello sguardo del terapeuta un nuovo specchio, un contenimento, una conferma esistenziale.

Clinica dello sguardo: transfert, vergogna e trauma relazionale

In ambito clinico, lo sguardo è carico di transfert. Alcuni pazienti lo cercano in modo compulsivo, altri lo evitano. La postura dello sguardo racconta una storia di relazioni passate: sguardi giudicanti, indifferenti, assenti, seduttivi. Il terapeuta è chiamato a sostare in questa complessità, offrendo uno sguardo che non giudica, ma accoglie; che non penetra, ma accompagna.

Nei pazienti con traumi relazionali, in particolare con storie di vergogna precoce o abusi emotivi, lo sguardo può essere vissuto come intrusione, come riattivazione del dolore. Judith Herman e Bessel van der Kolk hanno evidenziato come nei disturbi post-traumatici complessi anche l'incontro visivo possa attivare risposte dissociative. Lo sguardo, allora, va dosato, regolato, negoziato.

Nella mia esperienza clinica, lo sguardo è forse lo strumento più sottile e più esigente che il terapeuta abbia a disposizione. Ogni giorno, nel mio studio, mi ritrovo a camminare su un filo teso: quello tra uno sguardo presente, consapevole, capace di contenere e restituire; e uno sguardo che non invada, che non imponga, che non travolga. C’è un equilibrio delicato da mantenere: uno sguardo che sia al tempo stesso penetrante e leggero. È uno sguardo che negozia, che sa che il cambiamento avviene al limite della zona di comfort.
Guardare un paziente non significa semplicemente osservarlo, ma invitarlo — anche solo di un passo — a varcare una soglia: quella del già noto, del già detto. E farlo con rispetto, con attenzione ai suoi tempi, ai suoi limiti, ai suoi valori. Uno sguardo che accompagna, che sostiene, che stimola, senza spingere troppo. Questa forma di presenza visiva è forse uno degli atti più delicati del lavoro terapeutico: vedere senza fissare, incontrare senza occupare.

Fotografia come esercizio dello sguardo

In fotografia, lo sguardo non è mai neutro. Il fotografo sceglie cosa includere e cosa escludere, da quale distanza osservare, che tipo di luce usare. Ogni immagine è un atto di potere, ma anche un gesto interpretativo. Come ricorda Susan Sontag, fotografare è sempre un atto di selezione, dunque di narrazione.

Nel ritratto fotografico, questa dinamica si fa più intensa: il soggetto è esposto, mentre il fotografo è protetto dietro l'obiettivo. Ma vi sono fotografi, come Nan Goldin o Francesca Woodman, che mettono in crisi questa asimmetria, esponendosi essi stessi, rendendo il gesto fotografico un evento relazionale.

Un esempio straordinario, in questo senso, è il lavoro di Elina Brotherus, la cui pratica autoriflessiva e visualmente limpida mette in scena la soggettività dell'artista come campo visivo e al tempo stesso emotivo. Nei suoi scatti, scrive, "c'è un tempo lento che coincide con lo stare" — uno stare che non è posa, ma esposizione sensibile al mondo e a sé. La sua presenza davanti all'obiettivo non è mai narcisistica: è un modo per abitare lo spazio della visione con consapevolezza.

In questo senso, la fotografia può diventare un dispositivo terapeutico: non solo rappresentazione, ma rivelazione. L'immagine fotografica può restituire uno sguardo nuovo su di sé, attivare narrazioni, disinnescare automatismi percettivi.

Autoritratto e sguardo interno: la fotografia in psicoterapia

L'autoritratto, inteso non solo come esercizio tecnico ma come gesto esistenziale, è uno strumento potente in psicoterapia. Guardarsi attraverso un'immagine implica un doppio movimento: mettersi in scena e osservarsi da fuori. Questa oscillazione tra sé attore e sé spettatore apre spazi di riflessione e trasformazione.

Ricordo ancora come, durante il primo anno della scuola triennale di fotografia, ci venne assegnato un lavoro sull’autoritratto, da realizzare con un foro stenopeico autocostruito. Un lavoro che inizialmente avevo affrontato con curiosità tecnica, ma che si rivelò ben presto qualcosa di più coinvolgente. L’intero processo – costruire la camera, scegliere lo spazio, le lunghe pose e l’attesa per lo sviluppo – diventò per me un’esperienza intensa, lunga settimane, capace di toccare aspetti interiori profondi. A distanza di tempo, posso dire che fu il mio primo contatto con qualcosa di molto simile a un percorso psicoterapeutico. Lo sguardo rivolto verso di me, attraverso quella piccola apertura, attivò un movimento interno trasformativo. Non cercavo una rappresentazione estetica, ma un modo per incontrarmi. E quell’incontro, seppure silenzioso, lasciò un segno duraturo.

Judy Weiser, pioniera della phototherapy, ha evidenziato come le fotografie personali, comprese quelle autoscattate, possano diventare materiali proiettivi, ponti tra conscio e inconscio. Lo sguardo dell'altro e lo sguardo su sé si intrecciano, generando nuove possibilità narrative.

Conclusione: verso uno sguardo che cura

In psicoterapia come in fotografia, lo sguardo non è mai un semplice atto percettivo. È un incontro. Può essere ferita o accoglienza, esclusione o contatto. Può congelare o liberare. Coltivare uno sguardo che cura significa imparare a guardare senza invadere, a sostenere senza catturare. Significa riconoscere l'altro nella sua interezza, senza ridurlo a immagine.

Lo sguardo, quando è autentico, è il primo gesto di cura e nel quale parla l'invisibile.

|“Come un obiettivo che non cattura ma accompagna, lo sguardo che cura è un atto di presenza: ferma l’attimo senza congelarlo, riconosce senza invadere, testimonia senza giudicare.”

Bibliografia

  • Sartre, J.-P. (2001). L’essere e il nulla. Milano: Il Saggiatore. [Edizione originale: L’Être et le Néant, 1943].

  • Merleau-Ponty, M. (2003). Fenomenologia della percezione. Milano: Bompiani. [Edizione originale: Phénoménologie de la perception, 1945].

  • Levinas, E. (1980). Totalità e Infinito. Milano: Jaca Book. [Edizione originale: Totalité et Infini, 1961].

  • Winnicott, D. W. (1971). Gioco e realtà. Roma: Armando Editore.

  • Stern, D. N. (1998). Il mondo interpersonale del bambino. Torino: Bollati Boringhieri. [Edizione originale: The Interpersonal World of the Infant, 1985].

  • Herman, J. L. (1997). Guarire dal trauma. Milano: Raffaello Cortina. [Edizione originale: Trauma and Recovery, 1992].

  • van der Kolk, B. (2021). Il corpo accusa il colpo. Milano: Raffaello Cortina. [Edizione originale: The Body Keeps the Score, 2014].

  • Sontag, S. (2004). Sulla fotografia. Torino: Einaudi. [Edizione originale: On Photography, 1977].

  • Barthes, R. (2003). La camera chiara: Nota sulla fotografia. Torino: Einaudi. [Edizione originale: La chambre claire, 1980].

  • Azoulay, A. (2008). The Civil Contract of Photography. New York: Zone Books.

  • Weiser, J. (1993). PhotoTherapy Techniques: Exploring the Secrets of Personal Snapshots and Family Albums. Vancouver: PhotoTherapy Centre.

  • Woodman, F. (2006). Francesca Woodman. San Francisco: San Francisco Museum of Modern Art / D.A.P.

Gabriele Lungarella

Graduated in Psychology and later in Photography Gabriele is a documentary photographer based in Rome, Italy. His work centers on landscape, urban landscape, interiors and architecture photography. Since 2011 he teaches photography at IED (Design University) in Rome. Interested in landscape as a silent reflection of human activity, his works focuses on creating an archive of natural environments and man-made landscapes, with special attention to the human and his psychological stratification.

http://www.gabrielelungarella.com
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